
Un distruttore a sua insaputa. Si potrebbe usare questa locuzione per descrivere in maniera però corretta Odoacre, che, famoso e citato in tutti i libri di storia, dalle elementari alle superiori, come colui che pose fine all’Impero Romano d’Occidente e fece pertanto iniziare il Medioevo, nella realtà probabilmente non si accorse e non sospettò mai di entrare nella storia né come distruttore di imperi, né come titano capace di chiudere un’epoca.
Di lui si sa poco, pochissimo. Per esempio, anche se di certo era barbaro, e nemmeno si capisce di preciso che caspita di barbaro fosse: erulo, dice la tradizione maggioritaria, ma forse anche unno, rugio, o turco, o magari goto, o forse figlio di un principe sciro. Se era figlio di re, doveva aver però perduto le fortune di famiglia ben presto, perché le poche fonti antiche che a lui accennano ce lo descrivono come un ragazzino poverissimo, alto ed emaciato, coperto di pelli capra, che va a consultare un eremita per capire cosa fare della sua esistenza: l’eremita, dice la leggenda, lo invia in Italia, perché lì il suo destino era di trovare grande fortuna.
Non la trovò certo subito, Odoacre, anzi forse la inseguì tutta la vita prima di sfiorarla per un attimo. Quando si pensa alla fine dell’Impero romano si immaginano grandi invasioni di barbari che arrivano alle frontiere da fuori, travolgendo tutto e tutti; ma la realtà è che i Barbari all’impero stavano già dentro: erano la forza e la carne da macello degli eserciti romani da decenni, per non dire da secoli. Così iniziò la sua carriera nell’esercito anche Odoacre, il barbaro: allevato fin da giovanissimo in quella macchina da guerra che erano le legioni. Anni di marce infernali, combattimenti continui, a massacrare senza pietà altri barbari provenienti da qualche villaggio più in là del proprio. Ma con la certezza che l’esercito romano, pur in tutto quel caos e quella decadenza, era ancora un posto dove il merito veniva premiato, dove non contava da quale buco delle selve germaniche fossi uscito e quale cagna barbara fosse stata tua madre: se eri bravo, se eri lesto, facevi carriera.
E fa carriera, Odoacre. Nel 472 lo troviamo dentro alla Guardia Pretoriana, il corpo più scelto di tutto l’esercito: quelli che da secoli sono la guardia personale dell’imperatore. È un barbaro che si sa muovere nei palazzi del potere, questo ex ragazzino erulo, o forse turlingio, o forse rugio, che ha probabilmente conosciuto i morsi della fame da piccolo, la durezza della disciplina militare spietata volta a selezionare solo i più forti, è sopravvissuto all’orrore, ha imparato a conviverci e a renderselo amico. Oltre che alto e robusto è diventato veloce a cogliere ogni opportunità ed a fiutare chi è il padrone in ascesa. È necessario essere così, del resto, in quella corte romana vagabonda, che gira fra città minori e campi di battaglia, e in cui imperatori e principi si susseguono a ritmo forsennato, uccisi nel giro di pochi mesi in battaglia, per rivolte interne o per congiure e complotti orditi da uomini fedelissimi fino a qualche minuto prima.
Nel 473 viene nominato comes domesticorum, cioè comandante dei Pretoriani, di Glicerio, imperatore – è uno dei tanti imperatori meteora – che a sua volta prima era stato comandante dei Pretoriani e deve la sua elezione al fatto che il burgundo Gundobado, magister militum dell’impero, lo mette sul trono tanto perché sia occupato da qualcuno di malleabile. Perché ormai l’impero romano è questo: un caos in cui comandanti barbari burgundi, goti, eruli fanno e disfano gli imperatori a loro piacimento, scegliendoli fra i funzionari a loro fedeli che hanno un pedigree e un nome almeno romano, tanto per salvare le apparenze, e poi sostituendoli gli uni agli altri come si sostituiscono le pedine di un gioco. E come pedine di un gioco poi li sacrificano, quando non sono più utili.
Odoacre osserva queste cose, ma certo non si sconvolge né si stupisce: ha visto ormai di tutto, ed ha imparato a guardare ed apprendere. Rimane al servizio di Glicerio, che però, nonostante sia un comandante più che decente e riesca ad allontanare persino quasi la minaccia di una invasione Visigota, non viene riconosciuto dall’imperatore di Bisanzio, Leone I, come legittimo collega. L’imperatore d’Oriente, infatti, preferisce nominare legittimo Cesare d’Occidente il dalmata Giulio Nepote, che aveva un bel nome romano, una famiglia romanissima alle spalle e per giunta dell’imperatore Leone aveva persino sposato una nipote; la nomina fu confermata dal successore di Leone I, Leone II, che, giovinetto, associa al trono fra l’altro come reggente e collega a Bisanzio il padre, Zenone, che da ora in poi sarà il grande – e spesso maldestro – orchestratore di questa stagione finale dell’impero romano d’Occidente.
Appena nominato Cesare, Nepote lascia la Dalmazia e va in Italia, sbarcando a Ravenna. Comincia qui un periodo che, persino per i parametri piuttosto elastici che ha la confusione nel Tardo Impero, noi potremmo definire di torbido ed incomprensibile caos. Glicerio scappa da Ravenna a Roma, mentre Gundobado in Gallia raccoglie forse truppe per lui; Nepote si prepara allo scontro prima che il Burgundo arrivi. Ma di fatto lo scontro non c’è, perché, quando tutti si aspettano la carneficina alle porte dell’urbe, Glicerio, che fino a quel momento pareva intenzionato a difendere il trono fino alla morte, si arrende senza colpo ferire, e Nepote, che pareva intenzionato a fare del rivale cibo per i suoi cani, lo perdona graziosamente, anzi, gli offre in pratica una pensione, nominandolo vescovo di Salona, in Dalmazia.
Il ruolo di Odoacre in tutto ciò non è chiaro, ma si sospetta che sia stato determinante, ed anche ambiguo. Uomo chiave di Glicerio, manterrà i contatti con l’ex imperatore per tutta la vita, tanto che da re lo nominerà arcivescovo di Milano. L’arrivo del nuovo imperatore Nepote forse lo spiazza, ma certo non lo ferma: in quel coacervo di bande personali di barbari fedeli al proprio comandante, e ormai ignari del nome di Roma, che è diventato l’impero romano, Odoacre sa di potersi ritenere sicuro finché ha alle spalle i suoi uomini, che a lui obbediscono e a lui solo. Quindi, quando Nepote si insedia e si incorona vantandosi del bell’appoggio di Bisanzio, Odoacre se ne strafrega, perché ha già scelto a chi vendere, o meglio prestare i suoi servizi: a Flavio Oreste.
Il nome romano non inganni: Flavio Oreste era un mezzo barbaro, o meglio un romano solo di seconda generazione. Il padre Tatulo era un barbaro, ma i due figli, Oreste e Paolo, avevano fatto carriera e si erano ben inseriti nella classe dirigente: Flavio, per esempio, aveva sposato la figlia del conte Romolo del Norico (attuale Austria), diplomatico di gran prestigio alla corte romana, tanto che anni prima era stato il capo della delegazione che aveva trattato con Attila. Dalla moglie romanissima ed aristocraticissima, Flavio Oreste aveva avuto un figlio, chiamato Romolo come il nonno. È questo figlio, un bel ragazzino quattordicenne che può vantare una bella discendenza ed un nome uguale a quello del primo re di Roma, e non se stesso, che Flavio Oreste pone sul trono dell’impero, dopo che Nepote è scappato in Dalmazia perché non ha il coraggio di affrontarlo, e Flavio entra da signore in quella Ravenna che ormai pare la scena vuota di un teatro abbandonato, destinata ad essere riempita da questo rondò di imperatori che assomigliano ad ombre perché altrettanto velocemente compaiono e svaniscono.
Il regno di Flavio – pardon, di Romolo Augusto – dura un anno. Ma non è Flavio a comandare, e tanto meno il biondo fanciullino imperatore dai nomi così altisonanti: è il caos. I barbari che lo hanno aiutato a prendere il potere reclamano ora il compenso: vogliono che venga concessa loro una gran parte d’Italia, per stanziarvisi in modo definitivo. Oreste non cede, e non può: si possono concedere ai mercenari terre ai confini dell’impero, ma l’Italia no, i Romani non accetterebbero mai. Dice no, e allora Odoacre si ribella. Attacca Ravenna e fa strage di Flavio, della moglie e di Paolo, trucidandoli senza pietà. Risparmia, vai a sapere perché, Romolo Augustolo, il ragazzino imperatore. Dicono che fosse impietosito dalla sua bellezza; in ogni caso decide che non è una minaccia, e di fatto non lo sarà per nessuno. Gli concede di ritirarsi in un dorato esilio in una villa in Campania, dove vivrà al riparo dal caos il resto della sua esistenza. E tutto sommato, contando la sorte degli altri protagonisti, Romolo è quello che ha il destino migliore.
Presa Ravenna e destituito Romolo, Odoacre si ritrova padrone dell’Italia e con fra le mani la corona imperiale. E qui esita perché non sa bene che fare. È un barbaro, Odoacre: sveglio, romanizzato e smaliziato, ma barbaro. È così conscio di questo suo limite che si ritrova bloccato: persino Flavio Oreste non aveva osato nominarsi imperatore, perché per occupare il trono dei Cesari ci voleva un nome romano ed un pedigree all’altezza. I barbari possono essere soldati, diventare generali, persino essere quelli che in realtà gestiscono il potere: ma imperatori no. E lui, poi, con quel nome che rivela la sua origine, no, non può nemmeno tentare l’ascesa. Che fare, allora? Flavio aveva il figliolo, quel ragazzino che aveva usato come paravento; lui no. L’impero gli ha chiesto una dedizione ossessiva, senza tregua: non ha avuto il tempo di crearsi una famiglia, di avere figli: ogni attimo della sua vita era stato dedicato alla sua scalata verso il potere, per dimenticare la miseria delle lande nordiche dove era nato, per adempiere forse alla profezia del vecchio eremita. Così ora non sa come comportarsi, Odoacre. Proclamarsi imperatore non può, significherebbe battaglia con il Senato, una accolita di vecchi barbogi senza esercito, ma cattivi, acidi e ben ammanicati, quindi capaci di creargli grane a non finire. Ma poi gli serve davvero quel titolo? È un nome, in fondo. In tanti anni nelle retrovie del potere ha visto che il comando non è mai esercitato dal fantoccio che sta sul trono, ma dal suo entourage. È un barbaro pratico, Odoacre: di un titolo vuoto non sa che farsene. Quindi prende le insegne e la corona imperiale, le impacchetta con le dovute cautele, e le spedisce a Bisanzio, restituendole a quello che formalmente è il legittimo collega dell’ex imperatore e l’unico imperatore romano ancora in carica, ovvero Zenone. Con un formale atto di omaggio, che in realtà non significa nulla perché Zenone è troppo lontano e troppo insicuro sul trono per pensare a spedizioni militari punitive, gli scrive di non sentirsi degno del trono imperiale, ma di contentarsi di un titolo di patrizio romano. Forse è il parvenu che è in lui che parla, il complesso di inferiorità barbarico che esce inaspettato: vuole essere ammesso fra quella aristocrazia che ha sconfitto ma che considera, da bravo barbaro acculturato, il suo modello di riferimento ideale. Ragiona da barbaro romanizzato bene, Odoacre, fin nell’intimo dell’animo. Pensa magari ad un matrimonio con una romana che gli darà figli in grado di presentarsi come veri nobili e salire loro un giorno al trono. E anche quell’atto di restituire le insegne, anche solo per formalità, al legittimo proprietario, è romanissimo: è un omaggio ad un mondo in cui il Diritto è comunque sovrano, e il rispetto, se non altro formale, della legge è un fondamento indiscutibile.
Si rende conto, con il suo atto, di aver messo la parola fine all’impero d’Occidente, invece? No. Non se ne accorge lui e non se ne accorgono i contemporanei. Non certo i barbari mercenari al suo servizio, che di politica non capiscono granché, e vogliono sono un capo in grado di garantire loro le paghe e i doni promessi; non se ne accorgono i senatori, che ormai considerano queste sarabande di deposizioni dal trono la normalità, e passano il tempo a tramare per deporre l’imperatore in carica o trovarne uno nuovo; non se ne accorge Giulio Nepote, ancora in vita, a Salona, e ancora convinto, in fondo, di essere imperatore legittimo; non se ne accorge Zenone, che riceve le insegne con una certa perplessità, ma, da bravo bizantino spocchioso, è convinto che i barbari siano tutti stupidi e ignoranti, un sottoprodotto usa e getta, utili finché sono utili ai disegni e poi sacrificabili e sostituibili con altri quando non lo sono più.
Benignamente Zenone gli concede il titolo di patricius e Odoacre ne è felice come un ragazzino. Si proclama rex degli Eruli e si considera un mandatario legittimo di Zenone. Come tale si comporta, in una maniera così romana come non si vedeva da secoli: va d’accordo con il Senato, cui restituisce prestigio, conia monete di rame migliori e più curate di quelle emesse dagli ultimi imperatori, tratta la restituzione della Sicilia con i Vandali, stronca senza pietà i capi barbari che osano ribellarsi, non tanto alla sua potestà, ma a quella di Roma. Sconfigge persino l’uccisore di Giulio Nepote, tanto per chiarire che chi uccide un governatore romano, persino se è un fastidioso ex imperatore, poi deve fare i conti con lui. Emana leggi, sforna editti, scova persino un modo, lui ariano, di convivere con i cattolici e tratta con rispetto il Papa. Colui che passerà alla storia per aver posto fine all’impero nei fatti è il più strenuo restauratore del suo ordine, se ne sente il difensore ed il legittimo amministratore. Un amministratore tanto ligio ed efficiente che Zenone comincia ad esserne scocciato. Odoacre capisce che a Bisanzio le sue azioni non sono più guardate con benigno disinteresse, forse comincia anche a trattare con un cospiratore, Illo, che vuole scacciare Zenone ed impadronirsi del trono. Zenone fiuta il pericolo, e per quella sua idea che i barbari sono intercambiabili e comunque tutti meno intelligenti dei bizantini, decide di inviare il Italia, come una sorta di sicario personale, Teodorico, re degli Ostrogoti.
Teodorico è giovane, ambizioso, smaliziato quanto Odoacre, ma persino più furbo e crudele alla bisogna: entra nel gioco perché gli conviene, pur non fidandosi di Zenone, e fa il lavoro che gli viene assegnato con efficienza teutonica: scende in Italia, assedia Ravenna. Sono tre anni di sofferenze per la città, per porre fine alle quali il vescovo Giovanni propone un accordo di mediazione: Odoacre e Teodorico governeranno insieme. Nessuno dei due è contento della cosa: il vecchio leone ed il giovane si odiano, e non sono caratteri disposti a spartire il potere con nessuno. Arrivano al banchetto che dovrebbe celebrare la pace armati sino ai denti e con il segreto intento di uccidere l’avversario. Ma Teodorico è più giovane e più svelto con la spada: sul pavimento della sala del banchetto, a fine serata, giace il cadavere di Odoacre. Morto. Come l’impero.